Tre alberi più il 2 per cento per salvare il pianeta… Un assegno da 1500 miliardi

Tre alberi più il 2 per cento per salvare il pianeta… Un assegno da 1500 miliardi

“Basta un 2 per salvare il Pianeta”. Titolava così, la Repubblica, il 22 gennaio scorso, in prima pagina, per richiamare un lungo articolo di Yuval Noah Harari, storico, saggista, docente all’Università Ebraica di Gerusalemme, autore di Sapiens, Homo Deus e Sapiens, Graphic Novel, su quelli che potrebbero essere i costi (e le motivazioni, naturalmente) per mettere la Terra al riparo dall’imminente disastro ambientale. Altrimenti inevitabile e anche più prossimo di quanto si possa immaginare. Di Pierluigi Visci

Il numero, come proponeva la “campagna” di Lion lanciata in dicembre, non si riferiva agli alberi (per noi tre, come sanno i lettori di questo mensile), bensì di PIL globale, ossia di tutta la ricchezza prodotta ogni anno dall’Umanità in ogni angolo dell’orbe terraqueo. Una cosa enorme? Certo, ma il mondo se lo può permettere, senza svenarsi. Lo sapete a quanto ammonta il PIL globale? Una cifra con dodici zeri, talmente tanti che sul display dell’iPhone manco ci stanno. Eppure… In dollari, il Prodotto Interno Lordo dell’intero mondo, dell’opulento Occidente e del meno ricco Est, del Nord come del Sud, tocca la cifra mostre di 850.000.000.000.000. Meglio: 850 mila miliardi di dollari. Un po’ meno nella valuta unica europea: 749.245.250.000.000 Ovvero 749.235 miliardi e 250 milioni di euro (per dare un punto di riferimento, il debito pubblico italiano, a novembre ’21, era pari a 2.694 miliardi di euro, più 105 miliardi rispetto al 2020).
Il “due” fa 1.700 miliardi di dollari (1.498 miliardi di euro). Nei conti di Harari torna anche il “tre”, come per i nostri alberi, perché il nuovo finanziamento dovrebbe ovviamente aggiungersi a quell’1% che il mondo già spende per l’”energia pulita” della trasformazione ecologica. Dunque, 2.550 miliardi di dollari (o 2.247 miliardi di euro). Ogni anno.
Questa (apparente) montagna di denaro è il mezzo per raggiungere l’obbiettivo di contenere entro 1,5 gradi centigradi l’aumento delle temperature alla data del 2050, come da programma dell’Umanità definito dall’Agenda ’50 dell’ONU, adottata dall’Unione Europea (che ha fissato una tappa di avvicinamento al 2030, domani) e rilanciata a Roma dal G20 a presidenza italiana, con molti mal di pancia. Gli stessi che hanno contrassegnato e paralizzato gli impegni della COP26 a Glasgow. I Grandi, come fanno da almeno trent’anni, si sono scannati per uno 0,1/0,2 in più per uno o due anni oltre il 2050. Ma la soglia è quella: 1,5. E i tempi (2050) anche.
Come per il Covid, anche per il salvataggio dell’ambiente sono scesi in campo i “negazionisti”, prima per bollare di catastrofismo gli allarmi degli ambientalisti, dichiarando non all’ordine del giorno il default del Pianeta. Sono gli stessi che oggi tirano indietro perché ormai è troppo tardi per evitare la catastrofe e dunque meglio non fare niente e lasciare il compito di autotutela alla Natura.
E invece no. Contenere il disastro ambientale è un dovere. Ed è possibile – sostengono gli economisti ambientali che si sono espressi in un sondaggio mondiale promosso dalla Reuters e apprezzato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico – intervenendo su energia e trasporti, i settori maggiormente responsabili della crisi climatica. Occorrerà intervenire anche sullo sfruttamento del suolo (agricoltura), sulla silvicoltura (tornano i nostri alberi) e la zootecnia (i pascoli di bovini responsabili del 50% delle emissioni di gas, con le sole flatulenze, e quindi del cambiamento climatico). Basterebbe modificare le abitudini alimentari: meno carne e latticini, più verdure, con vantaggio – affermano gli esperti – per la salute umana e per quella delle foreste pluviali.
È un dato scientifico e statistico ormai consolidato: il Pianeta non riesce più a produrre le risorse necessarie per soddisfare una popolazione in costante crescita. Attualmente siamo quasi 8 miliardi di esseri umani, con una crescita di 1 miliardo e 500 milioni negli ultimi 15 anni. Saremo 10 miliardi di umani alla data fatidica del 2050 e 11 miliardi e 200 milioni a fine secolo. Troppi, decisamente troppi. E più persone mangiano, maggiore sarà il consumo energetico e l’emissione di gas che provocano i cambiamenti climatici documentati dalle immagini catastrofiche che ogni sera entrano nelle nostre case con il telegiornale.
Dal 1969, com’è noto ai più, c’è un indice che fissa il giorno dell’anno a partire dal quale la domanda di risorse ambientali diventa superiore a quella che la terra è in grado di generare. È definito Overshoot Day. Ebbene, nel primo anno della rilevazione la domanda copriva agevolmente tutti i 365 giorni dell’anno. Dieci anni dopo andavamo in deficit al giorno 301 (eravamo a debito in novembre e dicembre). Nel 1989 l’Overshoot arrivava il giorno 285. Veniamo ai giorni nostri: nel 2017 è arrivato al giorno 210, nel 2020 (primo anno del Covid) era risalito al giorno 234, ovvero al 22 agosto. L’anno scorso è precipitato al 29 luglio, giorno 206. Significa che per 5 mesi su 12 abbiamo vissuto a debito, come se una famiglia dalla fine di luglio deve chiedere soldi in prestito per campare. Viviamo a debito da 51 anni. Fino a quando potrà durare?
Le risorse (e gli strumenti tecnologici e scientifici) per invertire la rotta ci sono. Per il resto è solo questione di volontà politica dei governi. Esempi. Nel 1945 gli Stati Uniti d’America spesero il 36% del loro PIL per vincere la seconda guerra mondiale. E nel 2008-2009 il 3,5% per salvare istituzioni finanziarie “troppo grandi per fallire”. I fondi pensione detengono 56 mila miliardi di dollari: che senso ha mettere da parte soldi per le pensioni se non c’è il tempo futuro per spenderle? si chiede Harari.
Ancora un dato: nei primi 9 mesi del 2020 i governi hanno impegnato misure di stimolo finanziario pari al 14% del PIL mondiale per fronteggiare il Covid-19. Sempre nel 2020 le spese militari hanno superato 2 mila miliardi e ogni due anni gli sprechi alimentari costano il 2,4% del PIL globale. È paradossale, poi, che i governi spendano ogni anno 500 miliardi di sussidi per la produzione di combustibili fossili: ogni tre anni e mezzo, insomma, firmano un assegno pari al 2% del PIL per l’industria che inquina, producendo costi sociali e ambientali pari al 7% del PIL mondiale.
È solo miopia? Per non parlare dell’evasione fiscale. È pari al 10% del PIL il denaro che i ricchi occultano nei paradisi fiscali, più un altro 16% di profitti offshore che sfuggono a ogni controllo. E dire che basterebbero 800 miliardi per comprare a valore di mercato tutta la Finestra Amazzonica e salvare il polmone verde del mondo, e tutte le biodiversità che contiene, dagli incendi dolosi per fare spazio a produzioni agricoli e pascoli. Sarebbe appena l’1%. Una volta e per sempre.
Ricordiamoci di questi dati a novembre, quando in Egitto andrà in scena COP27, la prossima conferenza mondiale sul clima promossa dall’ONU. E di fronte ai soliti mugugni, alle copiose lacrime di coccodrillo e alle resistenze che puntualmente registriamo ogni anno da 30 anni, esigere quell’assegno pari al “misero” due per cento del PIL. La salute dell’Umanità vale molto di più. E poi quel 2% lo produciamo noi e non certo per assistere, come accaduto nel 2019, ai 18 eventi (12 nel solo mese di novembre) di acqua alta oltre 120 centimetri a piazza San Marco a Venezia. I costi, anche solo quelle monetari, sono stati molto maggiori. Oppure, sempre nel 2019, i 72 mila incendi boschivi nella Foresta Amazzonica, l’80% in più rispetto all’anno precedente. Oppure, ancora, le alluvioni dell’estate 2021 in Germania e Belgio che hanno fatto anche 184 morti, e mandato a casa la coalizione di governo di Angela Merkel. E mentre in Africa prosegue, lentamente ma irrimediabilmente, l’agonia del lago Victoria. Ed è solo qualche esempio.
Abbiamo l’occasione storica epocale di diventare “i migliori antenati per le generazioni future”, salvando il Pianeta Terra e creando un’economia più prospera e a misura d’Uomo. E noi Lions, nel nostro piccolo, mettiamoci anche tre alberi.