ROMAGNA SOTT’ACQUA un’altra tragedia annunciata

ROMAGNA SOTT’ACQUA un’altra tragedia annunciata

Dai giorni del Polesine (1951) decine di disastri idrogeologici, oltre mille morti, danni per decine di miliardi. Ancora una volta non abbiamo ascoltato. Solo due anni fa l’ISPRA aveva scritto che… Di Pierluigi Visci

E dire che si sapeva già tutto. Tutto già scritto e, talvolta, vissuto. Anche senza scomodare Leonardo da Vinci – come ha fatto Gian Antonio Stella, regalandoci una chicca preziosa – che sei secoli fa spiegava che l’“acqua disfa li monti, e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potesse. E non ha quiete insinochè non si congiunge col suo marittimo elemento”. Dopo Ischia e Senigallia, i precedenti più prossimi, e a 72 anni dalla “madre” di tutte le alluvioni, il Polesine, è ri-successo in Emilia Romagna che l’acqua “disfa li monti e riempie le valli”. Oggi diciamo frane: circa 400 quelle contate in Romagna dalla Protezione Civile come “molto significative”, impattanti in 56 comuni, 170 delle quali in soli 18 comuni del Ravennate, come Casola Valsenio, Conselice, sommersa, imprutidita e evacuata, e Brisighella, delizioso borgo medioevale attraversato da Dante e noto anche per aver dato i natali a otto Principi della Chiesa dal ‘500 in poi. Oppure la bolognese Monzuno. E, su tutti, Modigliana e Dovadola, nomi ormai purtroppo familiari nelle litanie del dolore, nel Forlivese-Cesenate. Del Forlivese si parla anche per il paese delle artistiche ceramiche, Faenza, dove è finito sommerso Borgo Dulbecco, costruito – informano le cronache – cinque metri sotto la quota del centro storico e dell’argine del Lamone. Tutt’altra preveggenza ebbero i bolognesi del XIII secolo che progettarono piazza Maggiore, la Piazza Grande di Lucio Dalla, 15 metri sul livello del Reno. Certo: piogge intense, copiose e violente hanno battuto la Romagna (e non solo) per giorni e giorni, in più ondate di terribile maltempo fuori stagione. In pochi giorni è caduta la pioggia di quasi un anno peraltro dopo lunghi mesi di siccità che avevano finito per indurire, e rendere impermeabili, i terreni. Con fiumi e canali collassati all’unisono, tracimando fango e detriti d’ogni genere e natura sulle campagne e nelle case. Che dire, ancora, del cambiamento climatico – il convitato di pietra di ogni sciagura ambientale – che ora ha presentato in queste terre il suo salatissimo conto, in attesa di rivolgere chissà dove la sua attenzione, in barba a “negazionismi” e “riduzionismi”. Sì, è stato un evento straordinario. Più che straordinario, eccezionale. D’accordo. Ma possiamo affermare, in coscienza, che in questo scenario l’Uomo sia solo una comparsa esente da responsabilità? No, la questione climatica è frutto di molti fattori naturali, ma non secondariamente anche dell’eccesso di antropizzazione. Che, secondo definizione in geografia, è l’“insieme degli eventi di trasformazione e alterazione che l’uomo compie sul territorio (ma anche nelle acque e nell’atmosfera) allo scopo di adattarlo ai propri interessi e alle proprie esigenze”. L’Uomo, dunque. Per le sue opere e (specialmente) per le sue omissioni. L’Uomo chiama in causa, inevitabilmente, la Politica, con i governanti a livello nazionale e locale. Senza esclusione di colore politico e di stagione, almeno nell’ultimo secolo. Almeno dal 1970, l’anno di nascita – come scrive Francesco Rutelli ne “Il secolo verde”, appena uscito da Solferino – del recente ambientalismo, con la prima Giornata della Terra (Earth Day), organizzata negli Stati Uniti anche sulla scia delle mobilitazioni giovanili contro la guerra in Vietnam. Per questo non si può non dire che, anche questo della Romagna, era un disastro annunciato. Su Internet, a portata di un banale clic, si può leggere il Rapporto 356, edizione 2021 (appena due anni fa, in piena emergenza Covid) dell’ISPRA. È l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ente di diritto pubblico istituito con legge dello Stato nel 2008 e organo del ministero dell’Ambiente. Lo presiede il prefetto Stefano Laporta, mentre Alessandro Bratti, si è dimesso da deputato (del PD) per fare il direttore generale. Sono loro che “firmano” il dossier dal titolo “Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio”. In oltre 200 pagine di analisi scientifiche, memorie storiche, illustrazione di caratteristiche, metodologie e monitoraggi, con grafici, cartine, statistiche, immagini, fornisce la fotografia più recente e attendibile del nostro disastro ambientale. Gran parte dei dati circolati in queste settimane su frane e alluvioni, valanghe e erosioni delle coste, vengono da lì. Pochi ne hanno citato la fonte. Il Rapporto, con semplicità e chiarezza, afferma che continuiamo a ballare nel salone delle feste mentre il Titanic affonda. Sono 1,3 milioni gli italiani che vivono sotto montagne e colline in attesa di collassare, mentre i concittadini che rischiano di finire sott’acqua sono sette milioni, quasi un residente ogni sei. Il 93,9% dei Comuni d’Italia – 7.423 – sono esposti a frane, alluvioni o erosioni costiere. Quello che in Romagna, oggi, fa più paura è la furia delle terre che scivolano a valle. Le frane, insomma, che le testimonianze delle vittime indicano, con stupore, movimenti improvvisi e di brevissima durata. In realtà, dicono gli scienziati, una frana ogni tre, in Italia, è un fenomeno a “cinematismo rapido e distruttivo”, con crolli, cadute di fango e di detriti. Anche questo è noto, documentato e denunciato. C’è un archivio europeo che censisce 900 mila frane nel Vecchio Continente. Di queste, 625 mila, i due terzi dell’Inventario, sono catalogate in Italia. Sono 625 mila e interessano 25 mila chilometri quadrati, l’otto per cento del territorio nazionale. Ci sono realtà locali che tengono in ordine e aggiornati i dati, come Bolzano (al 2021) e l’Umbria (al 2018). Benino Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Piemonte, Sicilia, Valle d’Aosta (al 2016). Meno bene Toscana (al 2015), Basilicata e Lombardia (al 2014). Male le rimanenti che non aggiornano dal 2007. La Calabria resta a forte rischio, per non parlare della Campania giù troppe volte colpita. È come la storia dei piani sanitari vecchi di vent’anni al tempo del Covid. E dire che dalle 18,30 di quel 14 novembre 1951 quando il Po ruppe in località Vallice di Paviole, e fu il Polesine, acqua e fango si sono prese la scena decine di volte e ogni volta in modo sempre più distruttivo e letale. Solo nell’ultimo trentennio, in Versilia (Toscana, 1996), a Sarno e Quindici (Campania, 1998), in Piemonte e Val d’Aosta (2000), in Val Canale (Friuli Venezia Giulia, 2003), a Messina (Sicilia, 2009), a Borca di Cadore (Veneto, 2009), in Val di Vara, Cinque Terre e Lunigiana (Liguria e Toscana, 2011), nell’Alta Val d’Isarco (Alto Adige, 2012), a San Vito di Cadore (Veneto, 2015), Madonna del Monte (Liguria, 2019), Chiesa in Valmalenco (Lombardia, 2020). C’è anche un’altra contabilità, quella dei morti. Dalle cento vittime accertate del Polesine, nel corso dei decenni repubblicani ne contiamo più di mille: dai 68 dello stesso 1951 in Calabria ai 325 nel ’54 a Salerno e, sempre in Campania, ai 160 morti di Sarno nel 1998. Ed è solo un accenno. “Una frana – ha scritto Giusi Fasano sul Corriere della Sera, – ha una sua vita. Quando comincia a muoversi può continuare a farlo per anni”. Il caso di scuola è quello di Corniglia, 1.700 abitanti in provincia di Parma, cuore del Parco Nazionale Tosco-Emiliano: la frana della Lama, di oltre 200 ettari, affonda le origini nel 1612, si riattiva nel 1740, si ripropone nel XX secolo (1902 e 1996) e morde anche nel 2000. Quante cose ci sarebbero ancora da dire per motivare persone e istituzioni e per indurle a vigilare almeno sulla propria casa. Per cambiare (o quantomeno modificare, mitigare) stili di vita. Dovremmo occuparci di più e meglio degli argini dei fiumi, soprattutto pulirli periodicamente. Vivere di più la montagna, rispettandola, e risolvere l’annosa questione dello spopolamento delle nostre montagne, vivendo e abitando i tanti paesini del nostro meraviglioso Appennino, la spina dorsale del Belpaese, sempre meno bello, sempre più vilipeso. Curare il territorio, ristrutturare il patrimonio edilizio esistente e smetterla di consumare il suolo residuo: abbiamo cementificato il doppio della media europea. L’economista bolognese Pier Giorgio Ardeni – sollevando polemiche a sinistra – ha scritto che l’Emilia Romagna è la terza regione in Italia per consumo di suolo in aree alluvionali. Tra le province più cementificate d’Italia, Ravenna – che sta pagando un tributo altissimo – è seconda dopo Roma. Spiega l’economista dello sviluppo: “Se cadono 10 millimetri di pioggia, in superficie ne rimane solo uno. In un parcheggio o in un’area asfaltata ne rimangono otto”. Sapevamo tutto. Ora anche di più.