Silvia Masci
Viviamo in un’epoca in cui le notizie e le immagini di guerra ci raggiungono ovunque e in ogni momento.
Apriamo un social, accendiamo la televisione, leggiamo un articolo e ci troviamo di fronte a immagini e notizie cruenti. Vediamo bambini sotto le macerie, volti spezzati, civili in fuga, città devastate, urla silenziose: un dolore che non resta solo sullo schermo o sulle pagine, ma si insinua anche nella nostra mente, suscitando forti emozioni. E il nostro cervello, di fronte all’esposizione di questi contenuti, cerca di “difendersi” come se fosse di fronte a un pericolo reale; per proteggere la psiche genera ansia, stress e tensione.
Studi scientifici hanno dimostrato che l’esposizione ripetuta a contenuti violenti attiva diversi processi di difesa: la desensibilizzazione emotiva, che riduce la sensibilità delle persone alla sofferenza altrui, diminuendo l’empatia e aumentando i comportamenti aggressivi; ma si attivano anche reazioni emotive come paura del futuro e tristezza, che possono influenzare il benessere mentale, causando stress, ansia e, nei soggetti più sensibili, disturbi post-traumatici da stress. Quando le notizie dominano il panorama informativo, può svilupparsi una distorsione della percezione della realtà, cioè una visione pessimistica e distorta che influisce sulle relazioni sociali, sulla fiducia negli altri e sul senso di sicurezza personale.
Inoltre, molte persone, di fronte al dolore che provano e alla distruzione che assistono attraverso immagini e comunicazioni mediatiche, sperimentano un senso di impotenza paralizzante: un’impotenza che impedisce di agire e che genera, nel tempo, apatia. Un atteggiamento passivo che può minare il senso civico e la partecipazione sociale.
Le neuroscienze affermano inoltre che le immagini violente hanno un impatto particolarmente rischioso sui bambini e sugli adolescenti, che sono più vulnerabili. La loro mente è ancora in fase di sviluppo e l’esposizione a tali contenuti può influenzare negativamente lo sviluppo emotivo e comportamentale, rendendoli più aggressivi, con difficoltà a distinguere tra realtà e finzione, e suscettibili a paure irrazionali.
È vero: il cervello si difende, si chiude, si abitua, si anestetizza — lo dicono le neuroscienze —, ma il dolore altrui non può diventare sfondo, rumore, routine. Spetta a noi non abituarci, restare vulnerabili, anche se fa male.
Sappiamo però che non possiamo guardare tutto; occorre proteggerci per non assorbire ogni ferita del mondo. Proteggerci non significa essere egoisti, ma essere lucidi, limitando le informazioni: scegliere quando aprire gli occhi e quando chiuderli per respirare.
Proteggerci significa informarsi con rispetto e non con voracità, per non trasformare la sofferenza in spettacolo e garantire così una responsabilità etica.
Occorre sapere ascoltare davvero le grida che chiedono di agire, ma anche confrontarsi per elaborare le emozioni che si sperimentano, per non diventare indifferenti e per mantenere la propria sensibilità ed empatia. Solo così possiamo scegliere, ogni giorno, di essere costruttori di armonia, tessitori di fiducia, portatori di speranza.