MANUELA CREPAZ
Sul Colle di Miravalle, che domina Rovereto, molto prima che il tema entrasse stabilmente nell’agenda internazionale, un gesto ha parlato più delle dichiarazioni: il 17 giugno 2000 fu issata la bandiera palestinese lungo il viale che conduce alla Campana dei Caduti – Maria Dolens, accanto a quella israeliana già presente dal 1975. Una vicinanza dovuta alla cronologia delle esposizioni che, nell’epoca degli Accordi di Oslo, assunse un valore potente: due bandiere affiancate come invito al rispetto reciproco e alla convivenza. A promuovere quel momento fu Pietro Monti, socio del Lions club Rovereto Host e allora terzo reggente della Fondazione Opera Campana dei Caduti, che invitò sul Colle un rappresentante di Yasser Arafat per la cerimonia ufficiale. Non un atto diplomatico, ma un segno civile: dire che la pace comincia dal riconoscimento dell’altro. Lo abbiamo intervistato.
Partiamo dal simbolo: che cosa dicono oggi, insieme, quelle due bandiere israeliana e palestinese issate a Miravalle nel clima di Oslo?
«Testimoniano che senza riconoscersi non si esce dal vicolo cieco. Allora sembrava aprirsi davvero uno spiraglio: per questo invitammo Ziad Abu Zayyad, all’epoca ministro dell’Autorità Palestinese. Mettemmo la bandiera con una cerimonia ufficiale sul Colle di Miravalle, lungo il Viale delle Nazioni, dove sventolano le bandiere degli Stati che hanno aderito al Memorandum di Pace della Fondazione — oltre ai vessilli di Onu, Unione Europea e Consiglio d’Europa. Purtroppo, sappiamo com’è andata: Rabin è stato ucciso da integralisti israeliani che non volevano i due Stati; Arafat è morto; e tutto è precipitato di nuovo. Oggi ci troviamo in una realtà drammatica: da una parte Hamas, dall’altra un governo israeliano dominato da spinte integraliste esasperate. Credo che la maggior parte degli israeliani non sia contenta della situazione complessiva e dei rapporti coi palestinesi, ma chi sostiene il governo in questo momento è la parte più estrema, e il governo si comporta di conseguenza. Allora sembrava possibile una soluzione, ma le due figure che avevano raggiunto quegli accordi, in pratica, sono venute meno.»
Se dovesse decidere oggi: rimetterebbe ancora le due bandiere l’una accanto all’altra?
«Certo, sperando che prima o poi si trovi una soluzione. Le guerre devono finire: non è pensabile “scacciare” tutti i palestinesi, e poi dove dovrebbero andare? È assurdo anche solo immaginarlo. Si sentono tante chiacchiere, perfino che diventerà una “riviera di resort”… Oggi soffrono soprattutto i palestinesi, ma la realtà è che sono due popoli in gabbia. C’è un libro interessante di Amos Oz che sostiene che, se Israele non lascia nascere uno Stato palestinese, è destinato a morire anche lo Stato d’Israele. Come si può pensare di non convivere in uno spazio così ristretto? Tra Israele e i Territori Palestinesi di Cisgiordania e Gaza vivono complessivamente attorno ai 15 milioni di persone, di cui la metà sono ebrei e la metà palestinesi, su poco più di 27.000 km2. O si costruiscono due Stati che si auto-amministrano, con pieni diritti e sicurezza per entrambi, oppure non se ne esce. I palestinesi non riescono a liberarsi dei propri estremismi; gli israeliani non riescono a liberarsi delle frange estreme dentro il governo. È un problema enorme. L’unica soluzione, secondo me, sono i due stati. L’autorità palestinese che noi avevamo riconosciuto era quella in Cisgiordania; a Gaza, a un certo punto, ha preso il sopravvento Hamas: ed è una tragedia.»
“Comporre i conflitti senza armi”: che cosa significa per lei?
«Non con le armi, ma con l’arte della diplomazia. Questo è il messaggio che possiamo dare. Deve prevalere la razionalità, per trovare soluzioni che compongano i contrasti senza arrivare allo scontro. Durante la mia reggenza abbiamo lavorato molto sullo sviluppo culturale e formativo della pace e dei diritti umani. Abbiamo avviato l’Università delle Istituzioni dei Popoli per la Pace, con una serie di iniziative rivolte a organizzazioni non governative a livello internazionale, una per stato, con un comitato scientifico. Lo scopo dell’università era proprio questo: cercare, con il dialogo, il modo di prevenire e ricomporre. La prima edizione fu nel ’92-’93, con la guerra nei Balcani in corso: la dedicammo proprio a quel tema, invitando chi, nelle ex repubbliche, cercava vie di soluzione.»
In fondo è anche la missione della Fondazione Campana dei Caduti: come la riassumerebbe?
«La Fondazione Campana dei Caduti ha come scopo favorire il dialogo, sia tra le religioni, sia tra i popoli, e trovare il modo di comporre i conflitti non con le armi, ma con il dialogo e la diplomazia. E bisogna lavorare sulla cultura: formazione, rispetto reciproco, diritti.»