Sì al Trattato ONU per l’Alto Mare<br>I GENDARMI DEL PIANETA BLU

Sì al Trattato ONU per l’Alto Mare
I GENDARMI DEL PIANETA BLU

Proteggiamo le acque dei nostri mari per salvare biodiversità e clima e dare ossigeno al nostro mondo. Le aree marine protette: sono 29 in Italia, più due parchi sottomarini nel Golfo di Napoli e il Santuario dei Cetacei tra Liguria, Sardegna e Toscana. Natura, turismo e business. Di Pierluigi Visci

C’è una notizia che sui media italiani è durata l’espace d’une matinée. Eppure, al di là dello straordinario valore del fatto, la storica approvazione del Trattato delle Nazioni Unite per l’Alto Mare è stato un momento di inattesa e benaugurante convergenza di popoli e governi in una drammatica fase geopolitica segnata, al contrario, da guerre sanguinose e devastanti in tutti i continenti del Pianeta, che Papa Francesco definisce da tempo “terza guerra mondiale a pezzi”. E che si rappresenta come l’insanabile crisi sistemica e di valori tra il mondo asiatico e il nostro Occidente. Con Cina, Russia e Iran (col supporto anche dell’India, dell’Africa e del mondo arabo) su una barricata, gli Stati Uniti d’America e l’Europa dalla parte opposta. Insomma, è accaduto l’impensabile nella notte tra sabato 4 e domenica 5 marzo quando al Palazzo di Vetro di New York, il Traity or High Seas è stato finalmente approvato con voto pressoché unanime. Un fatto incredibile testimoniato dalle lacrime di Rana Lee, ambasciatrice indonesiana e presidente della Convenzione sugli Oceani, a conclusione di una vicenda diplomatica durata vent’anni e con una maratona negoziale finale di 38 ore ininterrotte. Essenziale il suo commento: “La nave ha raggiunto la riva”. Mentre Laura Meller, attivista per gli Oceani di Greenpeace, ha parlato di “un segnale che in un mondo sempre più diviso, la protezione della natura e delle persone può trionfare sui calcoli della geopolitica”.
Di cosa si tratta, allora? Questo, più in sintesi, è il Trattato del 30×30. Significa che i 193 Stati che si raccolgono sotto l’ombrello delle Nazioni Unite s’impegnano a proteggere il 30 per cento degli oceani entro il 2030. S’intende quella enorme parte di mare che è “terra di nessuno”, ossia l’alto mare che eccede le 12 miglia nautiche (24 chilometri dalla costa) di acque territoriali appartenenti agli Stati sovrani e anche quelle 200 miglia nautiche considerate “zona economica esclusiva” sempre sotto sovranità degli Stati costieri. Queste fette di mare sono (o dovrebbero essere) tutelate di fatto dai paesi rivieraschi. Oltre è, appunto, terra di nessuno. Una immensa distesa di acque che copre il 63% delle acque marine del Pianeta e rappresenta anche la metà del territorio del Pianeta Terra. Per dare un’idea della vastità di questa immensità, basti pensare che il nostro Mediterraneo rappresenta appena l’1% della superficie complessiva dei mari del Pianeta. Negli Oceani risiede il 90% delle biodiversità esistenti, molte delle quali a rischio estinzione, pur essendo fondamentali per l’equilibrio climatico e l’assorbimento di CO2. Gli oceani producono ogni giorno più della metà dell’ossigeno creato dall’intero Pianeta.
Arrivare all’approvazione è stato faticoso perché gli interessi in gioco sono enormi. Purtroppo non si può ancora cantare vittoria perché molto, il di più, resta da fare: per diventare operativo occorre la ratifica dei parlamenti di almeno 60 paesi membri. La corsa contro il tempo, se vogliamo rispettare la scadenza del 2030, sarà a folle velocità e i colpi di coda non mancheranno. Perché proteggere il 30% dell’Alto Mare è impresa da far tremare le vene: significa imporre divieti a tutte quelle attività di sfruttamento che danneggiano l’ecosistema marino, a cominciare dalla pesca e dall’esplorazione mineraria degli abissi. Andranno create aree marine protette, realizzando una rete di “santuari” delle specie ittiche e vegetali, con un monitoraggio costante e permanente.
Quella delle aree protette è sicuramente la strada maestra per garantire protezione e rigenerazione. È una politica che, anche in Italia, è stata avviata dagli anni ’80 del secolo scorso e comincia a dare frutti: attualmente l’Italia gestisce 29 aree protette e due parchi sottomarini (entrambi a Napoli, Baia e Gaiola) per complessivi 222.442 ettari. Qualcuno celeberrimo, come Capo Caccia a Sassari o Capo Milazzo a Messina o ancora Capo Rizzuto sulla Costa Jonica. Ma anche Punta Falcone a Santa Teresa di Gallura. Trionfa la Sicilia con Isola delle Femmine, Ustica, l’Isola dei Ciclopi ad Aci Trezza (Catania) o le Isole Pelagie (Isola dei Conigli e Lampedusa) o il Plemmario di Siracusa oppure le Isole Egadi con Favignana. In buona posizione anche la Sardegna con la Penisola del Sinis a Oristano oppure l’Asinara a Stintino. Troviamo poi Portofino (Genova), le Cinque Terre (sempre in Liguria). Nella lista ci sono Capri (con Punta Campanella) e Ischia (con il Regno di Nettuno). E la Toscana con le Secche della Meloria (Livorno). Su tutte queste aree di pregio naturalistico e anche turistico, il gioiello internazionale che condividiamo con la Francia e il Principato di Monaco: il Santuario dei Cetacei detto anche Santuario Pelagos, che si estende per 25.575 chilometri quadrati e che tocca tre nostre regioni: Liguria, Sardegna e Toscana.
Nonostante tutto, queste meraviglie coprono appena il 13% dei nostri mari e le aree realmente protette, con divieti assoluti di pesca, di balneazione e di navigazione, toccano appena lo 0,01% delle aree da proteggere.
Ormai è chiaro che la tutela ambientale è anche un fatto economico rilevante. Queste aree marine, ad esempio, sono un patrimonio di bellezze naturali che, con le dovute cautele e distanze, sono attrattive turistiche per milioni di persone da tutto il mondo e opportunità di vita per gli abitanti del posto. Pensiamo alle Cinque Terre, ad esempio, con le sue Riomaggiore, Vernazza Monterosso, il suo parco e le sue riserve, senza scomodare il citato Santuario dei Cetacei. Se ne sta giovando anche l’industria. È di questi giorni la pubblicazione dei risultati 2022 di Enel, ad esempio. Il ceo Francesco Starace ha detto che l’utile netto è stato di 5,4 miliardi di euro a fronte di ricavi per 140 miliardi, per un dividendo di 0,40 ad azione, che – oltre la quota fiscale – sono soldi per lo Stato che ne è azionista. La produzione di energia elettrica di Enel è per 123,7 Terawatt (con un più 4,5%) da fonti rinnovabili, quindi pulite, che supera la produzione di termoelettrico (88,8 TWh). La produzione di Enel è al 61% a zero emissioni e sarà Net Zero entro il 2040. Nel suo piccolo (si fa per dire) anche A2A ha avuto una forte spinta dalle fonti green, con due portafogli (eolico e fotovoltaico), che portano il totale della produzione da energie rinnovabili al 12% del totale. Insomma, cresce l’energia green, cresce la nostra autosufficienza energetica da gas (mentre finalmente raggiungono i porti di Piombino e Ravenna i rigassificatori acquistati da Snam), petrolio e fonti fossili. Avanti così.