Sono seduta qui, oggi, a pensare, dopo un’accurata disquisizione telefonica con un amico Lion, ben presto scivolata dagli auguri dell’Immacolata Concezione verso argomenti di realpolitik e sociologici in cui l’amico, amareggiato, rifletteva su quanto fossero cambiati il mondo, le espressioni della politica e le genti in questi ultimi due anni, soprattutto nelle loro sfere più intime, di quanto si fossero spenti gli entusiasmi sani o il senso di “meraviglia”, a prescindere dal naturale effetto placebo che l’avanzare dell’età matura toglie alla fiamma sacra degli entusiasmi giovanili. Di Caterina Eusebio
Ebbene, a me sembra, invece, che questo nostro mondo abbia dei punti di evoluzione ed involuzione comuni da sempre (G.B. Vico docet). Cambiano i modi, le mode, le sfumature negli atteggiamenti, i mezzi a disposizione, ma l’uomo, di per sé, non cambia molto. O, forse, naviga a vista sulle onde della storia con la sua personale arca di Noè; da sempre alla continua ricerca di un equilibrio o di una bussola, che poi alcuni finiscono con l’ignorare, con l’inconscio auspicio di non affaticarsi oltre in una ricerca della saggezza che, a volte, lungo la sua strada inciampa nell’ossessione.
L’equilibrio è il nostro Graal, è la piattaforma di lancio della sacralità di un pensiero che si fa etico ed, in quanto tale, si ritiene giusto. È la ricerca propria della natura umana che si chiama “vita senziente” che volge verso il bene, come un fiore o una pianta prosperano e sbocciano solo se rivolti al sole.
Oggi, come ieri, siamo sempre più affascinati o, meglio, magnetizzati, dalla ricerca di simboli che parlino al nostro occulto interiore, a quella parte inesplorata di noi stessi senza la quale non potremmo gustare il senso della scoperta e della ricerca: l’uscita dallo “stato di minorità”, il cui gusto a rompere gli argini dei limiti imposti dai contesti di appartenenza è puro godimento e delirio di momentanea onnipotenza. È così che i “volenterosi” riescono ad assaporare, anche se solo momentaneamente, un senso di libertà infinita e di appagamento senza eguali, laddove la natura animale e quella spirituale non confliggono, non si straziano ferendosi reciprocamente, ma si abbracciano, ritrovandosi all’uscita delle caverne o in condizioni temporanee dei nostri destini.
Gli uomini si abbattono da sempre di fronte alle guerre, alle lordure, all’ineluttabilità delle cose vissute come non giuste, ai sensi di colpa, giacché sentono in bocca l’amaro sapore dell’impotenza e constatano quanto le lame arrugginite delle loro baionette siano completamente inoffensive rispetto a determinati eventi, tutti riconducibili al nostro unico grande nemico: la morte. Ogni sconfitta è la morte di qualcosa dentro di noi, prima fra tutte la speranza. Noi siamo speranza; la vita è speranza; l’amore, la nascita, la vittoria sono speranza. La Saggezza è la dea di chi spera e che, da buon allievo, ricerca un buon maestro. La Saggezza è il Maestro ed il suo linguaggio, il Simbolo, è universale.
Nella Grecia antica, nostra mentore da sempre, “Simbolo” è l’unione delle radici syn e bállo: essa deriva dall’usanza ateniese di spezzare in due parti la “tessera dell’ospitalità” per poterla poi ricongiungere come prova dell’ospitalità concessa o ricevuta; quindi, esso indica “riunione” e “condivisione”, contrapposto al “diabolum”, che invece di unire disgiunge e, quindi, genera Chaos; che anziché generare Armonia, produce frastuono e inutili parole, genitori di Ignoranza e Pregiudizio.
Dinanzi al Simbolo e agli eventi della vita è necessario stare prima un po’ in silenzio, come quando si guarda ad un cielo stellato: osservare, elaborare, pensare il pensiero e, poi, parlare. Un silenzio intelligente, fatto umiltà di ascolto dei propri pensieri elaborati, per poi passare a cesellare la vita attimo dopo attimo con lo scalpello dei su citati pensieri pensati.
È forse questa pazienza che, come constatava il mio amico Lion, manca ai nostri giorni, fustigati ed iperstimolati dalla velocità delle comunicazioni, che bruciano il tempo del vivere rendendolo più avido delle nostre energie di quanto esso già lo sia naturalmente. L’antica spada di Damocle che ci accompagna fedelmente dalla nascita e che, giorno dopo giorno, ci ricorda, iscrivendolo sui nostri corpi segno dopo segno, che questa nostra vita è “a tempo” e che lui, il Tempo, fratello indifferente dell’esistere e del cessare d’esso, vince sempre. Tutto ciò tende a far di noi delle monadi che si rifugiano in fondo alle caverne dell’io, spesso incontrando l’ego che le illude con i falsi ed effimeri profumi di vittorie-lampo facili e miracolose (e noi dalla storia delle guerre che si pensavano “lampo”, ne abbiamo avuto di insegnamenti di distruzioni e di crudeltà inutili!).
Ciascuno di noi dovrebbe prendere ispirazione dalla reciprocità dell’azione antica ateniese di mettere insieme le due parti della tessera dell’ospitalità: un invito proprio al “dialogo” con le nostre ombre e tra persone, per aiutare noi stessi e gli altri ad uscire da quello stato di minorità nel quale, periodicamente scivoliamo allorché incontriamo il fango dei sentieri dispotici degli eventi negativi.
Il “Dialogo” è reciproca comprensione: è il “discorso tra due esseri pensanti” che tiene per mano la “Logica”, senza il cui aiuto il discorso non è chiaro. Il “Discorso” è Logos, ovvero l’azione reciproca e chiarificatrice di un pensiero che fluisce liberamente e, secondo il suo etimo latino, “dis” – “corre”, ovvero si muove da una parte all’altra, sino a che la meta non sia raggiunta.
Forse in nessuna epoca della storia umana l’uomo è mai stato così tanto dotato di informazioni e, al contempo, così poco informato sulla realtà di quanto avviene. Oggi, nella nostra continua fruizione di comunicazione che ne alimenta la fame, è il silenzio che manca e che non riusciamo a riconoscere e sopportare, non essendo più allenati a farlo. Non sappiamo più ascoltare la musica, preferendo ad essa il rumore e lasciando che intorno a noi prevalgano quei suoni che non consentono le pause necessarie alla riflessione, luce di Ordine all’uscita della caverna del Chaos.