Trent’anni di confronti senza trovare una linea comune. Dopo Glasgow le speranze e l’attesa salgono, ma i distinguo continuano ad essere troppi. Per salvare il pianeta Terra occorre guardare all’obiettivo finale non all’interesse dei singoli Paesi. Di Tarcisio Caltran
COP26 (Glasgow): quante attese, soprattutto in chiave ambientale! Tanti, troppi interventi, dichiarazioni forti, almeno in apparenza. Tutti concordi: bisogna fermarsi altrimenti il futuro del pianeta è già segnato. Politici ed esperti concordano sull’obiettivo da raggiungere, senza dannose attese, un po’ meno sulla via da seguire. È la constatazione di ciò che sta avvenendo nel pianeta; una sorta di presa d’atto, seppur con colpevole ritardo.
Sull’altro fronte le manifestazioni dei giovani, decise e perentorie. Pian piano si smussano gli angoli a livello politico, anche i Paesi più riottosi firmano un trattato che pure non è una conquista, ma solo il primo di tanti passi che l’umanità deve compiere. Non c’è scelta! Ma chi si affaccia ora sulle scena economica mondiale preferirebbe ripercorrere le strade battute dagli Stati che hanno fatto da traino ad un progresso fondato sullo sfruttamento delle risorse fossili, trascurando la tutela del pianeta e i diritti dei popoli che sono stati sfruttati, esclusi da scelte che riguardano tutti.
Come dar loro torto? Arrivano per ultimi ad assaporare il “progresso” e non possono fare quello che per decenni hanno fatto i detentori del primato economico. Si amplia così la forbice tra Paesi ricchi e Paesi poveri, costretti alla fame, all’emarginazione, all’emigrazione. Devono, gioco forza, cercare altre vie. Il “Terzo Mondo” non intende più stare a guardare chi ha solo pensato a sfruttare le loro risorse, ignorando tutto il resto, dalla crescita sociale che avrebbe contribuito al loro progresso, offrendo potenzialità che ora milioni di persone cercano altrove, a rischio della vita, lasciando zone rese sempre più inospitali dai cambiamenti climatici per tentare la fortuna altrove.
I “grandi”, “obtorto collo” sembrano rassegnarsi, forse rendendosi conto della gravità della situazione, ma un’inversione di rotta impone scelte forti, un cambiamento di mentalità, di cultura, di rispetto per i diritti di tutti. Allora si tratta, si media, si cerca il compromesso alla faccia delle dichiarazioni pubbliche. “Parole, parole, parole, soltanto parole…” diceva una canzone, “bla, bla, bla” gridano a gran voce i giovani, osservando gli esiti di scelte che non si possono riproporre.
La salvaguardia del pianeta non vuol dire abbandonare il progresso, ma scegliere vie nuove, eticamente praticabili ed ecosostenibili, in grado di offrire riscontri molto positivi, pur con qualche sacrificio momentaneo.
L’economia del futuro ha già volto la testa altrove. Per contrastare i cambiamenti climatici e salvaguardare l’ambiente servono scelte convinte, non più rinviabili, dall’industria all’agricoltura (foreste comprese), agli stili di vita (trasporti, carburanti, energia ecocompatibile, etc.); nessuno può restare ai margini. Il “villaggio globale”, come veniva definito il pianeta, si ribella, grida vendetta, ma soprattutto chiede un sistema che guardi al progresso civile e sociale distribuito fra tutti il più equamente possibile, per avere maggiori chance di salvare un patrimonio straordinario che ci è stato consegnato e che dobbiamo conservare e, se possibile, migliorare, per chi arriverà dopo.
Sempre parole comunque, se guardiamo al comportamento di alcuni Paesi, che sembrano dire “D’accordo, ma ne parliamo dopo!” Intanto aumentano il ricorso ai combustibili fossili per soddisfare il bisogno di energia, ignorando ancora le conseguenze che loro stessi evidenziano. L’Occidente, tradizionalmente inteso, sta alla finestra mentre altri vanno alla conquista di intere zone del pianeta, di continenti (a cominciare dall’Africa, anche con la promessa, peraltro doverosa, di un miliardo di vaccini, o comunque di aiuti sostanziali), per assicurarsi risorse indispensabili per l’economia. Ancora una volta si cerca il compromesso, a dispetto degli impegni presi.
Da Rio de Janeiro nel 1992 alla Cop26 di Glasgow
Quanta strada è stata percorsa in 30 anni! Si parte dalla Conferenza di Rio de Janeiro (1992) che fa “sognare” l’inizio di una nuova era grazie anche alla firma della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici e sugli effetti del gas serra. Si arriva alla Cop 21 di Parigi (2015) dopo incontri che non lasciano il segno…
il protocollo di Kyoto (1997), la conferenza de L’Aia (2000), quelle di Marrakech (2001), Montreal (2005), Nairobi (2006), Copenaghen (2009) dove si raggiunge l’impegno per contenere l’aumento della temperatura entro i 2° e l’aiuto ai Paesi più poveri, quindi Durban (2011) e Varsavia (2013).
I risultati non sono pari alle attese. Anzi, la rottura è evidente. Le speranze quindi sono riposte su Parigi, dove i 195 Paesi presenti sollevano grandi proclami con l’accordo per il contenimento del clima i 2°, che dovrà essere verificato negli anni successivi.
L’impegno non trova tuttavia pratica attuazione e così si giunge alla firma degli accordi nel recente appuntamento di Glasgow, purtroppo con alcuni distinguo che non la-sciano tranquilli. Dall’incontro di Rio sono trascorsi oltre trent’anni!