Il Covid-19 e la voglia di mettersi ancora in gioco

Il Covid-19 e la voglia di mettersi ancora in gioco

Siamo con il prof. Giovanni Ambrosino. Quaranta anni spesi nei reparti di chirurgia e nei laboratori di ricerca, a Padova in Clinica Chirurgica, in America e a Vicenza come Direttore della UOC di Chirurgia Generale ad alta specializzazione. Trapianti di fegato, chirurgia oncologica, ricerche sperimentali, poi la grande decisione: dimettersi per inseguire il sogno del cinema come sceneggiatore e regista. A giugno del 2019 Il prof. Ambrosino ( nella foto) lascia un primariato e si dedica al mondo della cultura dopo aver già scritto e diretto un cortometraggio pluripremiato che il Lions Padova Gattemalata ha sponsorizzato con coraggio e determinazione. Poi, febbraio 2020, si trova in America a concludere alcune ricerche di cui era ancora il direttore e a vivere le prime esperienze di Hollywood, quando in Italia, un virus allora ancora sconosciuto, aveva messo in ginocchio gli ospedali. Il rientro e quella voglia incredibile di essere ancora utile alla sanità. Intervista di Gianfranco Coccia

Professore cosa è accaduto per vederla tornare negli ospedali in tempo di Covid?
Mi sono reso conto che la situazione in Italia era drammatica. In America, dove mi trovavo, si parlava poco di Sars Cov2 e l’allora presidente Trump minimizzava molto. Il Covid all’epoca era “solo” il virus venuto dalla Cina. Si sapeva molto poco e questo dato giocò in maniera sfavorevole sulle cure. I ricoveri erano molti e così anche i decessi. Il mondo intero era spaventato. Ho sentito che non potevo restare immobile di fronte a tanto dolore, a tanta incertezza. Così ho dato la mia disponibilità in un Pronto Soccorso Veneto. Nello specifico quello di Adria, diretto da un eccellente primario: Giovanni Lucianò. Ho trovato tanta competenza tra i colleghi, gli infermieri, gli OSS e gli autisti di ambulanza. Sapevo dei rischi che correvo, vista la mia età, ma in realtà anche quando facevo trapianti a pazienti affetti da epatite rischiavo e anche moltissimo. Di epatite si muore in una percentuale maggiore rispetto al Covid.
Un pronto soccorso?
Si, un avamposto. Il primo intervento è cruciale in questi casi. Il paziente è lì che si rivolge e aspetta risposte. Un pronto soccorso in caso di pandemie, deve essere in grado di affrontare le malattie, ma anche le paure determinate dal sentirsi indifesi. Valutazione, diagnosi, capacità di comprensione dei problemi in poco tempo e con poche armi, sono la base di quel lavoro. Nuovo per me, lo ammetto, ma anche molto affascinante. Da chirurgo sono sempre stato abituato a risolvere i problemi e in questa nuova situazione “risolvere” è una delle priorità.
Ci può dire qualcosa in più di questa infezione?
Il Covid è classificato come una influenza da Coronavirus. I sintomi sono quelli dell’influenza: tosse, febbre, diarrea. La caratteristica può essere la perdita del gusto e dell’olfatto. Nelle forme più gravi: polmonite sino alla mancanza di respiro. La mortalità nel mondo resta molto contenuta. Nell’ordine del 2-3%. Anche i numeri dell’infezione sebbene tanti non sono così drammatici. Siamo a 50 milioni di positivi. Ma l’influenza da altri virus ogni anno arriva a un miliardo di persone infette e nel 2019 sono deceduti 800.000 bambini al di sotto di 5 anni. E per l’epatite siamo a 350 milioni di persone positive. Per l’Herpes Zoster a 500 milioni.
Allora perché c’è tanto panico e il mondo risponde chiudendo tutto?
Perché il sistema sanitario mondiale (ma ancor più in Italia) non è organizzato per le pandemie. Non ci sono piani organizzativi specifici, il tampone è arrivato solo in un secondo momento e tracciare i positivi è, in queste condizioni, impossibile. Non esistono programmi di screening (non solo per il Covid, ma anche per l’HIV per esempio) e la sanità ha pagato lo scotto di essere stata sempre contratta per ragioni economiche. Ospedali chiusi, reparti chiusi, scuole di medicina con un esame di ingresso che non ha nulla a che vedere con la medicina stessa, scuole di specializzazione a numero ridotto, personale infermieristico mai assunto, ambulanze mai acquistate. La medicina territoriale non è in grado di curare le persone a casa, come invece dovrebbe essere per coloro che non hanno sintomi gravi. Tutto questo ha inciso pesantemente sul sistema sanitario.
Quindi secondo lei i lockdown possono ridurre il peso sugli ospedali?
Certamente contrarre gli incontri tra persone riduce la possibilità che il virus passi rapidamente. Ma non sarei stato così drastico. Non esiste solo il Covid. Ci si ammala anche di altre patologie virali e non. Chiudere le palestre e le piscine, per esempio, significa nessuna prevenzione (e a volte anche cura) sulle malattie cardiovascolari. Chiudere cinema e teatri significa non dare alle persone la possibilità di distrarsi, in un mondo nel quale giornalmente ci sono bollettini di morti. Chiudere negozi, ristoranti, bar, significa far entrare quelle persone nella paura del domani. Nella depressione, che è una malattia durissima da sconfiggere. Sono aumentati i ricoveri in psichiatria e aumentati i decessi. Aumentati gli infarti. E i pazienti neoplastici fanno fatica a trovare risposte concrete. Molti reparti sono stati chiusi. Il peso aumenta anche in divisioni che non trattano pazienti affetti da Covid. Per questa ragione è necessario rivolgersi al medico curante per evitare di intasare inutilmente gli ospedali che invece servono soprattutto per i pazienti più critici. Questa è la vera risposta al problema.
Cosa ci insegna questa pandemia?
Ci insegna che la sanità è qualcosa che va programmata con professionalità. È fatta di investimenti in competenze e attrezzature. Oggi c’è il Covid, ieri l’Ebola o l’HIV, domani qualcos’altro. La globalizzazione è anche prendere i rischi portati da altre popolazioni. E dobbiamo essere pronti, con piani organizzativi specifici.
E il vaccino?
Il vaccino sembra essere alle porte. Ma sono molto preoccupato. Prima di essere autorizzato definitivamente ci vuole tempo. E per il numero richiesto non credo sarà disponibile per tutti. Poi c’è il problema di coprire aree del paese difficili. Comunità piccole, composte prevalentemente da persone anziane, quindi con grandi necessità. E il vaccino, come quello dell’influenza, non è la certezza di non prendere la malattia. È una protezione, certo, ma non sono convinto che ci libererà da questa paura.
Pensa di dare ancora il suo contributo?
Si lo sto già facendo. Gli ospedali cominciano a riempirisi e ora più che mai c’è bisogno di tutti. E allora eccomi qui, in prima linea come tanti colleghi e pronti a dare un piccolo contribuito affinché ogni persona si possa sentire seguita, curata, amata. A volte vale più una carezza che un farmaco.