Col piano consegnato all’Europa l’Italia sceglie il futuro.
Di Pierluigi Visci
Ci siamo. Il 30 aprile l’Italia ha messo nelle mani dell’Europa le sue speranze di futuro. Il progetto di riforme e rilancio sociale ed economico – in gergo burocratico PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), che trae origine dal Recovery and Resilience Facility dell’Ue – con la richiesta di Roma, il massimo possibile, di 221,5 miliardi di euro, 68,9 a titolo di sovvenzioni (fondo perduto) e 191,5 di prestiti (bassi interessi e comode rate, fino a 37 anni). Altri 30 miliardi verranno dal fondo complementare al Recovery. L’intervento, fino al 2032, conterrà altri 26 miliardi per opere specifiche comunque connesse al PNRR e ulteriori 13 miliardi del programma REACT-EU, da spendere tra il 2021 e il 2023. L’importo complessivo dei fondi arriva così a 251 miliardi di euro. Durerà fino al 2026 (salvo l’appendice al 2032), anno in cui l’Italia dovrà essere stata rivoltata come un calzino per migliorare il suo Pil del 3,7%. È la più imponente iniezione di denaro e di riforme nel “Sistema Italia”, di gran più imponente del celeberrimo Piano Marshall statunitense che, tra il 1948 e 1951, trasfuse 1.204 milioni di dollari (sui 12.731 erogati a 17 Paesi europei) nell’economia italiana devastata dalla seconda guerra mondiale. Quel finanziamento servì a rimettere in piedi l’industria (meccanica, siderurgica ed energetica), ma – soprattutto – pose le basi per il miracolo economico degli anni ’50 e ’60, per l’integrazione europea e per acquisire competenze e mentalità imprenditoriali. Anche quello si chiamava Recovery (ERP) e scommetteva sulla modernizzazione dell’Europa.
Al di là degli interventi finanziari, complessi e molto dettagliati, l’occasione del NGEU (Next Generation Eu) è fondamentale per recuperare ritardi sociali ed economici, aggravatasi oltre misure negli ultimi 30 anni, ormai non più sostenibili, per superare un complesso normativo sovrabbondante che affonda le radici nel XIX secolo e riparare un apparato pubblico anchilosato, certamente all’avanguardia ai tempi di Napoleone.
Siamo soffocati da una insopportabile sclerotizzazione, che rende impotenti cittadini e imprese. Su queste pagine (Lion, aprile 2021) abbiamo scritto delle improcrastinabili riforme della Giustizia cui l’Europa ci richiama (e sanziona) da decenni. Col piano di 319 pagine trasmesso a Bruxelles, il governo assicura – Mario Draghi si è fatto garante con Ursula von Der Leyen, mettendo sul piatto tutta la sua credibilità – che metterà mano anche alla Pubblica Amministrazione e al Fisco, in chiave anche ambientalista, nonché alla semplificazione della legislazione e alla promozione della concorrenza, del mercato del lavoro e dei prodotti e servizi. Intollerabili, ormai, i ritardi e la macchinosità degli apparati burocratici pubblici, centrali e periferici, come le procedure. Ricette e strumenti (modernizzazione, digitalizzazione, capitale umano) per migliorare ci sono.
Il governo vuole ricostruire la PA con il cosiddetto modello ABC. In sintesi: Accesso (nuove regole per entrare nelle amministrazioni, competenze e merito per l’assunzione e la carriera, mettendo l’anzianità in soffitta; concorsi snelli e selezione attraverso la piattaforma unica di reclutamento e istituzione del Manager delle Risorse Umane. Incentivazione all’esodo per chi non mostra di avere motivazioni e competenze per lavorare nella nuova PA). Buona Amministrazione (semplificazione, silenzio-assenso, decertificazione, eliminazione di vincoli burocratici, superamento di documentazioni già in possesso della PA, piena intraoperatività delle banche dati pubbliche. Ed è solo qualche esempio). Competenze (valorizzazione del capitale umano, formazione continua, incentivi, lavoro da remoto). Di questi temi sentiremo parlare a lungo e forse, finalmente, saranno il presente del rapporto cittadino – pubblica amministrazione.
Con soluzioni urgenti perché il successo del PNRR (con la riscossione dei contributi europei tappa dopo tappa) dipenderà da una burocrazia più snella, capace di dare tempi certi nei procedimenti amministrativi a cittadini e imprese e in grado di rendere attraente il Paese anche agli investitori stranieri.
Tutto questo sarà utile, ma non risolutivo, senza la governabilità delle istituzioni. La riduzione dei parlamentari (da mille a 600), sostiene Valerio De Molli, ceo di The European House Ambrosetti, ci allinea ai principali Paesi europei (598 in Germania, 650 in Gran Bretagna, 577 in Francia), ma è ancora poco senza riforme costituzionali e di sistema capaci di non garantire procedure istituzionali più snelle e qualità e continuità di governo.
Negli ultimi 20 anni l’Italia ha avuto 21 governi, con 40 partiti e 13 diversi premier. La Germania 8 governi, 4 partiti, 3 cancellieri. Qualche ricetta: legge elettorale certa con bilanciamento maggioritario proporzionale, crisi di governo solo in presenza di un nuovo governo e bando ai trasformismi (200 cambi di casacca nei tre anni di questa legislatura). Basterebbe una riformina regolamentare, senza costi: sottrarre interlocuzione parlamentare (e finanziamenti) al Gruppo Misto. Per cui chi lascia il gruppo di elezione si autocondanna all’irrilevanza politica perdendo potere di condizionamento. Come al Parlamento europeo.
E tante altre cose appassionanti, sulle quali far sentire anche l’opinione dei Lions. Il momento storico è esaltante.