PENSARE L’IMPENSABILE  e torneranno (anche) le lucciole

PENSARE L’IMPENSABILE e torneranno (anche) le lucciole

Dal carpe diem di Orazio a Pasolini, da Amos Gitaj a Baricco, scrittori, registi, architetti ci indicano la strada maestra per riequilibrare il rapporto tra l’Uomo e il suo Ambiente. Il minuscolo virus che ha sconfitto i potenti dell’Universo ci indurrà finalmente a occuparci e preoccuparci dell’“unico Pianeta che condividiamo”?
Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti), sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo abbastanza straziante del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel qualcosa che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole” (Pier Paolo Pasolini, Il vuoto del potere, Corriere della Sera, 1 febbraio 1975).
Quella del “poeta maledetto”, nove mesi prima di essere ucciso all’Idroscalo di Ostia, era una intensa critica al potere e la “scomparsa delle lucciole” esprimeva simbolicamente la trasformazione sociale, culturale, economica del Paese piegato dal “nuovo fascismo democristiano” al consumismo di massa, che era allo stesso tempo mercantile, culturale e mediatico. Profeticamente sceglieva: “Darei l’intera Montedison per una lucciola”.
Mezzo secolo dopo, mentre tentiamo faticosamente di riprenderci le libertà delle vite sospese nei novanta giorni del Covid-19 – la prima pandemia integralmente universale, esplosa e vissuta in diretta televisiva e web dal divano di casa – la scelta che i governanti della Terra sono chiamati a fare è ancora una volta quella posta dall’intellettuale di Casarsa: la Montedison o la lucciola? Col titolo Torneranno le lucciole, su Robinson di Repubblica (12 maggio), l’architetto milanese Stefano Boeri e Amos Gitaj, regista israeliano di Haifa, si sono confrontati sugli ineludibili e radicali cambiamenti per salvare il Pianeta. A partire dagli ambienti urbani, che disegnano o che raccontano. Per l’autore di Free Zone “un minuscolo virus, più piccolo di un millimetro, o forse ancora meno, è riuscito a mettere in ginocchio potenti interessi globali, politici che si considerano sofisticati manipolatori machiavellici, interessi giganteschi di società multinazionali e un intricato sistema bancario”. Riuscirà, si chiede Gitaj, il minuscolo virus a indurci a preoccuparci (finalmente!) dell’“unico pianeta che tutti condividiamo?”. Per l’inventore del “bosco verticale” nei grattacieli meneghini, poi, dobbiamo smetterla di considerare la Natura come un “mondo esterno da colonizzare o riparare”, mentre la Natura siamo noi e perché da noi dipende il destino delle foreste, degli oceani, delle città. Anziché pensare di “tornare pigramente a quella normalità che ha al suo interno molte delle cause di questo disastro”, l’Uomo abbia il coraggio di fare un salto evolutivo, darwiniano, e la smetta di “guerreggiare per un Dio che rischia di assistere all’estinzione dei suoi stessi fedeli”. A tempi eccezionali, come questi che ci è dato vivere, risposte eccezionali: l’architetto ci ricorda che la specie umana sa “dare forma ai sogni” ed è capace di costruire politiche “insieme visionarie e graduali”. “Bisogna pensare l’impensabile”, sembra fargli eco Alessandro Baricco, autore di The Game: per salvare un mondo che rischia di “non avere più senso”, dobbiamo abbandonare “molte delle vecchie categorie”.
Ecco. Quante volte, durante il lockdown, ci siamo sentiti ripetere ossessivamente che “tutto tornerà come prima”. E poi, mentre ci si avviava timidamente alla fine delle restrizioni, che stavamo per “tornare alla normalità”. Sbagliato. Questo è il tempo del cambiamento, della capacità di fare scelte, del coraggio di mettere tutto in discussione. È il tempo, il momento del carpe diem, del cogliere l’attimo, come Orazio già insegnava duemila anni fa, lamentandosi già allora che Roma “non era più quella di una volta”, perché i carri che percorrevano le nuove strade lastricate di ruvide pietre, facevano un gran baccano e non lo lasciavano dormire.
Con Orazio, e poi con Pasolini, e ora con il minuscolo virus, torna a porsi l’alternativa, l’antica scelta tra lo sfruttamento intensivo e il ripristino del corretto rapporto dell’Uomo con il suo Ambiente. Abbiamo ricominciato così come avevamo chiuso: lamentandosi per i soldi, i soldi, i soldi, come canta Mahmood e molto prima di lui Betty Curtis. Invece: dobbiamo cambiare le città, ripensare lo sviluppo produttivo, trovare nuove modalità di lavoro. Magari un po’ meno ricchi di denaro, per essere più ricchi di salute fisica e mentale. Abbiamo le visioni, abbiamo le tecnologie. E la poesia delle frasi incise negli orti di Tonino Guerra a Pennabilli, dove troveremo la nostra boccata d’ossigeno “per il corpo e per la mente”: “Oltre il cancello c’è sempre una rosa che nasce e muore per te”. E magari, annotava il poeta che sceneggiava i capolavori di Fellini, impareremo che “quando incontriamo un albero, diciamo: “Buongiorno, signor albero”. Pierluigi Visci