Ho avuto la fortuna di incontrare il prof. Andrea Biondi, Direttore SC Pediatria-IRCCS S. Gerardo dei Tintori di Monza, per rivolgergli alcune domande sulla realtà di chi, come piccolo paziente, come familiare e come medico, vive quotidianamente a contatto con la paura che una diagnosi di cancro porta con sé e che, nel caso di bambini, diventa terrore.
INTERVISTA DI MARIACRISTINA FERRARIO
Come riesce un medico, che si prende cura di un bambino oncologico, a svolgere il proprio lavoro, mantenendo in equilibrio conoscenza, razionalità, emozioni positive e delusioni e rinnovando ogni giorno un impegno dove le competenze e gli strumenti che possiede, possono a volte risultare inefficaci portandolo a dover accettare una sconfitta tanto innaturale come la perdita della vita di un bambino e non smettere, tuttavia, di lottare?
Non ci si può mai abituare, neanche difendendosi dentro la corazza del camice bianco, ma si vivono esperienze di straordinaria umanità e condivisione che toccano la sfera più profonda del nostro essere, come medici e come persone e ci portano a sentire il desiderio e trovare la forza per mettercela tutta e offrire ai piccoli la possibilità di una vita fuori dalla malattia.
Rivelare a un bambino e a una famiglia una diagnosi tanto inaccettabile, dovrà tenere conto di mille aspetti soggettivi. Penso sia però fondamentale, che verità e speranza, fiducia e coraggio procedano insieme, per tutto il percorso, rinnovati ogni giorno. Come si riesce a fare questo?
I genitori hanno bisogno di essere nutriti di parole che, pur rimanendo aderenti alla verità, si esprimano in modo morbido e più facile da digerire, vista la fragilità emotiva del momento. Le parole devono essere scientificamente corrette, rispondere a domande precise, parlare di guarigione e di guariti, infondere fiducia, rassicurare senza illudere. Non devono generare ansia e paura e, soprattutto, non devono uccidere la speranza. “Le parole possono essere muro oppure finestra” (M. Rosenberg).
Nostro compito è accompagnare i genitori e supportarli anche nei momenti in cui, purtroppo, ci si rende conto di avere perso contro la malattia. In italiano esiste la parola “orfano” per chi perde un genitore, “vedovo” per chi perde il coniuge, ma non esiste un vocabolo che indichi il genitore che viene privato del proprio figlio e questa assenza mi fa pensare che, forse, un dolore così grande non possa essere contenuto in un’unica parola.
Potrei raccontare mille episodi che ogni giorno mi suscitano emozioni pazzesche: dal bambino che tranquillizza la mamma, dicendole di non piangere, al piccolo che mi regala un disegno e mi dice che non sa come ringraziarmi. Concludo con uno scritto da brividi. È di Veronica, una ragazzina di 13 anni: “Quello che conta nella vita, non è saperla affrontare. Quello che conta, è saper accogliere il momento in cui finisce”.
Posso quindi dire di frequentare, ogni giorno, grazie al mio lavoro, una vera ed efficace “Scuola di Vita”.
Ritengo sia fondamentale, oltre a offrire il nostro contributo alla ricerca, non dimenticare tutto quanto questa malattia rappresenta, nel quotidiano, non solo dei bimbi che la subiscono, ma anche di tutti coloro, familiari, medici, volontari, che ne condividono il percorso e l’evoluzione.