Fin dove osa LO SGUARDO

Fin dove osa LO SGUARDO

A volte viene di chiederci chi siamo, dove andiamo, cosa celino il presente immediato ed il futuro prossimo. Ci interroghiamo da quando la ragione silenziosa esplora le nostre coscienze ed alimenta la costruzione delle nostre identità. Restiamo sospesi, intrappolati in momenti vuoti in cui spieghiamo le ali ai nostri pensieri pensati e, con il vento di una volontà adolescenziale e non ancora ben disciplinata, gonfiamo le vele dei nostri vascelli fino a quando lo sguardo osa, fino a quel punto dell’orizzonte oltre il quale tutto è un’unica, indistinta avventura nell’ignoto, un nulla-tutto, ossimoro simbolico delle nostre esistenze. Di Caterina Eusebio

Ci crediamo liberi e conosciamo la libertà nella sua forma primigenia e più comprensibile alla nostra mente: il pensiero. La nostra vera libertà, forse l’unica di cui disponiamo, “quasi” assoluta, ove la libertà realizza se stessa scivolando come fluido tra le sbarre delle gabbie del vivere e dei luoghi in cui esso si compie.
Ho scritto “quasi”, giacché anche il nostro pensiero finisce per essere un granello divino e potenzialmente illimitato incatenato, o meglio, ospitato a tempo, da un corpo regalatoci dalla materia ove tutto si trasforma e, nel farlo, perde identità e sentire nell’irreversibile processo vita-morte. Processo cui ci prepariamo, timorosi, per una vita intera, comprendendolo senza mai accettarlo, perché tale è il nostro atteggiamento verso tutto ciò che rinnega l’idea di libertà. La libertà è infinito, l’eterno che è in noi, che ci strazia la ragione perché essa non smette mai di interrogarsi e di contorcersi dolorosamente tra le tenaglie di un corpo cui non riesce a sfuggire, se non con un unico atto finale di resa e divorzio.
Eppure, continuiamo a sentirci infiniti, eterni; diciamo d’esser liberi, ci intestardiamo nel voler far andare le cose in un certo modo nei nostri rapporti associativi interpersonali; protestiamo e ci affanniamo per un qualcosa che, alla fine, è una chimera rispetto all’eternità e all’indifferenza della materia di cui siam fatti. Noi figli di un Dio benevolo che dalle briciole dei nostri atti ci insegna ad andare oltre, a sfidarci nelle volontà, ad osare con l’immaginazione, a creare pensiero pensante, che rischia se stesso nel dono del proprio tempo alle comunità.
Spesso ingabbiati dal vivere quotidiano, stanchi per le fatiche che la modernità, avida compagna dell’ossessione della produttività a tutti i costi a spese del nostro tempo grazie anche alla velocità dell’interconnessione, ci svuotiamo e ci lasciamo andare alle correnti del momento; alcuni, affidandosi al gruppo, che è prigione nella prigione, altri, sospendendosi, ritirandosi ed osservando dalle finestre istoriate delle loro cattedrali lo svolgersi dell’altrui vita.
E allora, che vuol dire “esser liberi”? Lo siamo mai astrattamente o solo relativamente ad una scelta, ad una situazione, ad una circostanza che in quel momento ci impegna o ci alleggerisce delle nostre ossessioni? Ci illudiamo e crediamo? È forse la libertà una fede che spinge i popoli a rivoluzionarsi, a sciogliersi dal giogo degli orrori delle dittature per poi cedere parte delle proprie conquiste ad un superiore bene comune che si chiama “democrazia”? Siamo convinti di essere piccoli eroi simili a Dei, o forse, sono gli Dei ad essere simili a noi perché nati dalla nostra immaginazione? E, tutto ciò che immaginiamo, alla fine, finisce per realizzarsi.
Alcuni la chiamano predisposizione alla predizione, altri fede, sorella di volontà, altri ancora “magia”. Ma rimaniamo sempre uomini, imprigionati nei giardini-labirinto dei nostri corpi nelle nostre esistenze a tempo e nella solitudine che ci avvolge, ove non riusciamo più a vedere in noi stessi, là dove non sempre osa lo sguardo. Che ne sarà di noi, dei nostri sguardi, dei nostri affanni, delle nostre sfide e delusioni, dei sorrisi donati agli altri, delle nostre paure e di questo meraviglioso sentimento che è l’amore fraterno che ci libera ogni volta dalle anguste terre oscure dell’ignoranza?