Miriam D’Ambrosio
Fast fashion, in italiano moda veloce: il settore nasce negli anni ’80, ma esplode nel 2000, quando, alcune aziende dell’industria dell’abbigliamento iniziano a produrre un numero sempre maggiore di collezioni l’anno a costi stracciati.
La tragedia del Rana PlaZa
Il 24 aprile 2013 in Bangladesh crollò il Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani. Fu la più grave tragedia nella storia dell’industria tessile; nel palazzo erano presenti diverse fabbriche di abbigliamento che producevano per marchi internazionali. I laboratori dovevano essere chiusi perché l’edificio era stato dichiarato non sicuro, ma l’avviso fu ignorato e i proprietari ordinarono agli operai di proseguire l’attività, causando 1134 vittime e 2515 feriti.
Chi lavora su questi vestiti?
Da allora ha preso avvio la campagna WhoMadeMyClothes? (“Chi ha fatto i miei vestiti?”). Ogni anno in tutto il mondo viene ricordata quella tragedia durante la Fashion revolution week, con iniziative ed eventi a sostegno di un’industria della moda sostenibile: sicura, giusta, trasparente e responsabile.
La produzione di massa a prezzi irrisori comporta, dunque, bassa qualità nel prodotto e genera enormi quantità di rifiuti e inquinamento.
Sfruttamento e inquinamento
Ogni anno vengono gettati via 5 milioni di tonnellate di vestiti, l’80% finisce in inceneritori e discariche spesso dislocati nel Sud del mondo. Eclatante è l’esempio della discarica illegale nel deserto di Atacama, in Cile, dove finisce la fast fashion di mezzo mondo, con molteplici rischi per l’ecosistema e per la popolazione locale.
Inoltre, il 60% delle fibre tessili utilizzate sono sintetiche e già dopo i primi lavaggi rilasciano microplastiche che finiscono in mare e poi, risalendo la catena alimentare, anche all’interno del nostro cibo e nel nostro corpo.
Acquistare seguendo i propri valori
Occorrerebbe regolamentare la fast fashion con un sistema di responsabilità del produttore, imporre alle aziende di fornire informazioni trasparenti sulla catena di produzione, ma, anche noi, potremmo dare il nostro contributo per contrastare il fenomeno. Ecco alcune pratiche necessarie da mettere in atto:
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ridurre l’acquisto impulsivo e fare shopping consapevole;
– investire in capi durevoli;
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riutilizzare i vestiti scambiandoli con parenti e amici;
– riparare gli abiti;
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creare un guardaroba intercambiabile cercando di abbinare i capi ad altri già presenti nell’armadio;
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acquistare da aziende locali che appartengono alla moda ecofriendly;
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evitare tessuti sintetici, preferire fibre naturali. Ultimamente ci sono il Pinatex a base di foglie di ananas e il Lyocell con fibre di legno;
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leggere le certificazioni sulle etichette degli abiti: Global Organic Textile Standard (GOTS) è lo standard per le fibre organiche; Fair Trade o Fair Wear: abiti creati in condizioni in cui operaie e operai sono pagati equamente.
Diventando più consapevoli, possiamo costringere i produttori a diventare più etici il nostro slogan sarà: compriamo meno e compriamo meglio.